domenica 1 marzo 2020

LAZZARETTO E ALTRE AMENITA'

Stasera sono arrabbiata. Anzi no. Sono furibonda.
Già da giorni tutta questa faccenda "coronavirus" mi stava innervosendo. Con le debite cautele del caso, mi convincevo sempre più che l'intera situazione ci stesse un tantino sfuggendo di mano. Le mascherine quotate come un accessorio di Chanel, l'amuchina che seguiva gli andamenti del platino, le razzie ai supermercati che nemmeno fosse stata predetta l'apocalisse... insomma, continuavo a ripetermi che a un certo punto saremmo rinsaviti e ci saremmo dati una calmata. Tutti quanti.
In particolare, a Milano abbiamo seguito le indicazioni delle autorità, abbiamo chiuso tutto, abbiamo lavorato da casa, abbiamo anche cancellato l'happy hour (per poco, eh...che non si può rinunciare proprio a tutto!), abbiamo fatto migliaia di test per verificare la presenza del virus, abbiamo identificato i focolai e li abbiamo isolati, e per tutto il tempo ci siamo ripetutti che niente e nessuno ci avrebbe fermato. Alla fine la calma avrebbe prevalso di nuovo.
Invece no.
Invece non c'è limite a quanto le cose possano andare male. A quanto il peggio possa ulteriormente peggiorare.

Da mesi avevo organizzato un viaggio negli Stati Uniti. Un viaggio che sognavo da una vita. Un viaggio che mi avrebbe portato in un posto che sognavo di vedere da una vita.
Bene, pare che il viaggio non ci sarà. Pare che gli Stati Uniti abbiamo deciso di bannarci dalle carte geografiche.
Sul serio? Voli bloccati da e per Milano? Davvero?
Ma con quale criterio? Credete davvero che il coronavirus sia una nostra esclusiva? Pensate che avere un oceano di mezzo vi renda miracolosamente immuni? Non sarà che avete deciso di non testare nessuno e quindi potete dire che il problema da voi non esiste?
Sul serio? Sicuri sicuri? Quindi che ne è stato della globalizzazione? In questo momento storico in cui le notizie, le immagini, i video fanno tre volte il giro del mondo prima che possiate dire TRUMP, davvero pensate che i virus viaggino a bordo di una diligenza del vecchio West? Blocchiamo i voli, diciamo alla gente di non andare in Italia e siamo a posto così? DAVVERO?

E diciamocelo, non si tratta solo degli USA. Il boicottaggio che l'Italia intera sta subendo in questi giorni è vergognoso. Imbarazzante. Invece che lodarci per la solerzia e l'impegno con cui stiamo cercando di porre rimedio a una situazione irrimediabile (che riguarda tutti, non solo noi italiani), si è deciso di attaccarci e isolarci. Noi a fare ogni sera la conta dei contagiati con un asettico "bollettino di guerra" a cura della Protezione Civile. Nel frattempo, Francia, Germania... l'Europa intera ha infilato con determinazione la testa sotto la sabbia, come un mostruoso struzzo, fingendo che il problema non li riguardi. Ma per favore! Tirate fuori dal cassetto i tamponi faringei e usateli, poi ne riparliamo!
Sempre oggi, il Louvre ha chiuso i battenti. Ma non per un'ordinanza governativa (come in Italia), ma semplicemente perchè gli addetti del museo hanno indetto una riunione e si sono rifiutati di aprirlo al pubblico. Francesi sì, ma stupidi no. A poco a poco lo stanno capendo tutti.
Certo, nessuno finora aveva osato bloccare i voli aerei...questa ci mancava come ciliegina.
Forse qualcuno dovrebbe spiegare alle prodi compagnie aeree a stelle e strisce che il coronavirus se lo sono già portati a casa. Da mesi. Dall'Italia, dalla Cina, da Chissenefegadadove...
Forse qualcuno dovrebbe verificare quante persone muoino agni anno per le conseguenze delle bibite gassate e del cibo spazzatura. Ma nessuno al mondo si è mai sognato di bannare i fast food.
Forse qualcuno dovrebbe enumerare le migliaia di persone che muoiono agni anno negli USA a causa di incidenti automobilistici e poi chiedere il blocco della produzione di auto. Così, per risolvere il problema alla fonte.
Forse qualcuno dovrebbe segnalare al sig. Trump e al sig. Pence che, invece di scoraggiare gli americani dal venire in Italia, dovrebbero scoraggiare tutti noi ad andare da loro, con il rischio concreto di finire in mezzo a una sparatoria o di morire ingozzati di patatine mal-fritte. Se proprio vogliamo parlare per luoghi comuni, ce ne sarebbero...

Ecco, stasera sono furibonda.
L'Italia, con tutti i suoi problemi, resta un paese meraviglioso e vederlo così maltrattato è dolorosamente ingiusto. Non ci stiamo proprio ad essere trattati come gli untori manzoniani. E qualcuno lo dovrebbe urlare. Qualcuno lo dovrebbe gridare a squarciagola.

sabato 8 dicembre 2018

IL DR. HOUSE NON ESISTE...

È passato un mese esatto da quando una macchina mi ha investita e no, le cose ancora non si sono aggiustate. Il dolore mi accompagna sempre, come un cane fedele. Non mi molla mai.
Faccio ancora fatica a vestirmi, a portare la borsa, a stare seduta, a camminare eretta. Faccio ancora fatica a dormire una notte intera. Mi sento stanca, impaurita, bisognosa.
Detesto sentirmi così. Odio avere bisogno, chiedere aiuto. Odio avere paura di attraversare la strada. Odio rabbrividire ad ogni passo sulle strisce pedonali. Odio avere un osteopata, un medico legale e un avvocato.
Odio non riuscire più ad indossare i vestiti che avevo quella sera. Odio sentirmi fragile e impotente. Odio che le persone mi dicano che poteva andare peggio.
È passato un mese esatto, ma io non sono guarita.

Mi capita spesso di ripensare a quella sera. Quella manciata di secondi perduti e poi il terrore cieco e sordo. L'irrazionale convinzione di essere morta. L'incapacità di capire l'accaduto.
L'ambulanza, il pronto soccorso. L'impossibilità di muoversi, di interagire. Legata come un salame alla tavola spinale. Il collare cervicale rigido. Tutto ciò che vedi è il soffitto. Senti le persone che parlano, ma non capisci se parlano con te.
Mia madre che mi tiene la mano, ma ad un certo punto la lascia. Senti qualcuno che dice "Qui non può entrare". E poi sei sola.
Ogni tanto qualcuno si sporge nel tuo campo visivo e ti chiede qualcosa. Random.
-Ti ricordi cosa è successo?
-Come ti chiami?
-Prendi qualche farmaco?
-Quanti anni hai?
-Dove ti fa male?
-Sei incinta?
-Riesci a muovere i piedi?
Quella sera ho ricalcolato e ricalibrato il mio senso del pudore, la mia soglia del dolore, il mio livello di imbarazzo tollerabile. Quella sera mi si sono sballati tutti i limiti di accettabilità.
Quella sera ho scoperto che la vergogna scompare di fronte al dolore. Il mascara sbavato, le ginocchia sanguinanti, i capelli scompigliati, la ceretta imperfetta...tutto passa in secondo piano, quando il tuo unico pensiero è che fra i tanti volti che ti girano intorno ci sia almeno un emulo del dr. House.

Ma il dr. House non esiste. 
Esistono schiere di medici-ragazzini e infermieri impacciati. Barellieri filippini che parlano a stento l'italiano. Esiste qualcuno che ogni tanto viene a dirti che bisogna aspettare. E tu aspetti. Legata come un salame e con il collo bloccato. Aspetti. E speri tanto di continuare a respirare e ti domandi "Se smettessi di respirare qualcuno se ne accorgerebbe?".
Non è un bel film. Non c'è proprio nulla che somigli a un film.
E anche dopo un mese esatto ti restano la paura e il freddo. Il dolore e il terrore. Il bip bip del monitor e le urla di un drogato che lo sovrastano. Il lettino scomodo e un camice di carta crespa. I piedi gelidi e le luci accecanti. Il tempo che non passa mai. Una dottoressa giovanissima che ti porta una tachipirina alla fragola con un sorriso. E tu che ti accorgi che il sorriso è più efficace della tachipirina.

Quando finalmente alle 2 e mezza di notte ti dicono che puoi andartene, non ti importa più nulla del dr. House. Ti togli il camice di carta crespa, lì davanti a tutti, e poi cerchi di rimetterti i tuoi vestiti, tirandoli fuori da un sacchetto di plastica. Sono ridotti a uno schifo, accartocciati come immondizia. Avevi una camicetta di seta rosa che sembra appena uscita da sotto una pressa. Un groviglio di pieghe, come se non venisse stirata dal 1993.
A quel punto guardi tua madre, mentre sei lì, mezza svestita, con la testa che pulsa e ogni angolo del corpo che urla dal dolore...e le dici "No, quella camicetta conciata così non me la metto".
Ecco, lì capisci che, grazie a Dio, ti rimane ancora qualche briciola di dignità. Un vago sentore di pudore. Un barlume di amor proprio.
Poi certo se ne va' tutto al diavolo appena tua madre ti fulmina con lo sguardo e ti dice di non fare storie e di rivestirti all'istante!
"Andiamo a casa" ti dice. E tu capisci che il pudore può aspettare ancora un po'.

È ormai passato un mese da quella sera, ma quella camicetta, ora fresca di tintoria, ancora non riesco a indossarla.
E no, non sono guarita.

mercoledì 2 agosto 2017

IO & IL GRECO. BREVE STORIA D'AMORE

Milano è una città che amo. Anche quando è bollente di inizio agosto. Anche quando i mezzi pubblici sono fornaci legalizzate. Anche quando non vedo l'ora di scappare via.
Ma a volte la città rischia di essere alienante. Tutte le mattine, sempre la stessa strada, lo stesso percorso, gli stessi marciapiedi, le stesse vetrine. Basta un attimo di distrazione e ti ritrovi in ufficio, seduta alla scrivania, con lo sguardo perso, a domandarti come ci sei arrivata.
E allora, per sconfiggere la noia e la ripetitività quotidiana, bisogna fissarsi degli obiettivi, costruire dei progetti, motivarsi. Io per esempio mi sono virtualmente innamorata di un tizio, che chiameremo Il Greco. Poi capirete perchè.
Vorrei potervi dire come è cominciata, ma non me lo ricordo con esattezza. So per certo che tutte le mattine salgo sulla metropolitana a Famagosta. Utilizzando sempre la stessa porta (una scelta ponderata, che ottimizza l'uscita a Porta Genova). Più o meno allo stesso orario. Otto e venti, otto e trenta. Traffico permettendo. Imprevisti permettendo.
Non so come e non so bene quando, ma ad un certo punto è arrivato Il Greco. All'inizio non si chiamava così. Era solo un tizio che prendeva la metropolitana a Famagosta, utilizzando sempre la stessa porta (quella dopo la mia), più o meno alla stessa ora. Ma una volta notata la sua presenza, l'appuntamento con lui è diventato un must. Sono stata "costretta" a calibrare il mio arrivo con grande precisione. Lui infatti è molto più puntuale di me: otto e trenta, massimo otto e trentadue. Mai prima, mai dopo. Una puntualità piacevole, ma per certi versi inquietante. Come fa ad essere così preciso? Come riesce a non sgarrare mai?
Giorno dopo giorno ho iniziato a chiedermi sempre più cose su di lui. Abbigliamento casual: che lavoro farà? Borsa consunta a tracolla: cosa ci sarà dentro? Auricolari fissi nelle orecchie: cosa ascolterà? Quale sarà il suo nome? Quanti anni avrà? E via dicendo. Giorno dopo giorno ho iniziato ad affezionarmi. E poi non dimentichiamo che lui è pure bello. Alto. Spalle larghe. Capelli corti e scuri. Profilo greco (no, non è questo il motivo del suo "nome"). Occhio furbetto.
Ora. Non prendetemi per pazza. Non sono una stalker che si apposta dietro gli angoli e fissa le persone di nascosto. Semplicemente, quei cinque minuti tra Famagosta e Porta Genova sono diventati un momento di pura evasione e deliquio adolescenziale. Tanto che, quando per cause di forza maggiore faccio tardi al mio appuntamento con Il Greco, mi si prospetta una pessima giornata. E quando invece arrivo in anticipo per cause inesplicabili, me ne sto un po' lì, a cincischiare sulla banchina, lasciando passare un treno o due, finché non lo vedo arrivare.
Qualche volta, per colpa del super affollamento, siamo saliti dalla stessa porta. Ma sono stati rari casi. A nessuno dei due piace cambiare. In quei rari casi però ho potuto osservarlo da vicino (gran bel culo, tra parentesi). Gli piace stare davanti alle porte, anche se poi non deve scendere. Però si fa da parte per far passare le persone (e questo depone a suo favore. Non è uno di quegli stronzi che si piazzano davanti alla porta e non li schiodi nemmeno a cannonate).
Nel corso dei mesi è passato dal giaccone pesante, al giubbotto in pelle, alle t-shirt. E da quando ha le maniche corte, ho notato due tatuaggi sul retro delle braccia. Uno sul braccio destro e uno sul sinistro. Sono due scritte. In greco. E io non conosco il greco. Quindi da settimane mi sto chiedendo cosa avrà mai scritto sulle braccia. E purtroppo non siamo mai abbastanza vicini da poterle inquadrare con il telefono, per poi farmele tradurre da una app.
...e così ho deciso di chiamarlo Il Greco. Stamattina indossava una maglietta grigia. E sono follemente innamorata di lui.

domenica 2 aprile 2017

I ❤ NY

Innanzitutto due cose.
Prima. Ogni volta che qualcuno mi fa notare che scrivo pochissimo su questo blog, mi assale un perturbante senso di colpa e mi sento in dovere di fare qualcosa per rimediare.
Seconda. Mi sono resa conto di non avere scritto una sola parola sul mio viaggio a New York di fine gennaio. E sono passati più di due mesi.

Quindi eccomi qui. Tornata. A parlare di New York.
Per svariati motivi a me incomprensibili, sono in parecchi a detestarla. E ogni volta sento l'obbligo morale di spiegare perché io invece la amo. Ma non sono mai certa di riuscire nel mio intento. Potrei dilungarmi per giorni a raccontare ogni singolo istante della mia vacanza, ma non credo sia questo il punto. Amare qualcuno (o qualcosa) spesso trascende dalla mera razionalità e sconfina nell'inspiegabile. Non è un oggetto tangibile, ma un concetto metafisico. Quindi? Come si fa a spiegarlo?
Per come la vedo io, l'unica è ricorrere a degli esempi pratici. Raccontare gli effetti materiali che produce su di me. Qualcosa in cui sia facile immedesimarsi. O almeno comprendere.

Credo di aver scritto almeno un milione di volte che New York mi fa sempre uno strano effetto. Un effetto cinematografico. La si vede così tante volte sullo schermo della tivù o del cinema, che sembra non ci sia mai nulla di nuovo. Tutto vecchio e già noto. Ma credetemi... tra il vedere un film dove le persone pattinano sul ghiaccio a Central Park e il pattinare effettivamente sul ghiaccio a Central Park c'è una bella differenza! Soprattutto se all'improvviso il cielo si apre, l'azzurro si fa strada e il sole irrompe sulla scena. Perfetto. Come nei film...

E restando in tema di film. C'erano due posti che volevo assolutamente vedere. Non ci ero mai riuscita nei miei viaggi precedenti. Il Carl Schurz Park e Coney Island. "La 25ma ora" e "I guerrieri della notte". Se vi devo dare altri dettagli, lasciate stare. Passate al punto successivo.
Nel parco che affaccia sull'East River, all'altezza dell'86ma strada, ho rivisto Monty Brogan e il cane Doyle. L'alba dell'ultimo giorno di libertà. Il faro. L'oceano sullo sfondo. La ragazza che fa jogging. Lo sguardo durissimo di Monty. Il rientro a casa.



Raggiungere Coney Island è stata una vera e propria avventura. Ci si arriva con la metro. Linea N. Da midtown ci vuole un'oretta. La stagione (fine gennaio) non era esattamente la più indicata. Ragione per cui, man mano che ci si allontana da Manhattan attraversando Brooklyn, i treni si svuotano. Completamente. E le fermate della metro assumono l'aspetto di anticamere dell'inferno, dove nessuno sale né scende. Fino a raggiungere il capolinea: Stillwell Av.
Però a quel punto sei a Coney. Un mondo a parte. Attraversi un immenso luna park deserto, considerata la stagione, e raggiungi la spiaggia. L'oceano. Il pontile. Il lungomare fatto di assi di legno. E allora rivedi i Guerrieri, all'alba, sulla spiaggia, finalmente a casa, dopo una notte intera spesa a salvarsi la pelle, dal Bronx fino a qui. Coney Island. E allora capisci che ne è valsa la pena. E speri di tornarci ancora, magari con il sole. Magari a fare un giro di Thunderbolt.



E poi una sera, la tua amica di mille avventure in giro per il mondo decide che bisogna cenare in un posto super trendy. Consigliatissimo. Gotham West Market. Tra la 44ma West e la 11ma Av. a Hell's Kitchen. Si è già fatta una certa, quindi si decide di chiamare un Uber per portarci in loco. Posto pazzesco. Ramen da urlo. Nomea meritatissima. Ma a quel punto, chissà perché, si decide che non ci si può sempre basare su Uber. Ci sono i mezzi pubblici, no? New York è famosa anche per questo. I mezzi qui funzionano H24. E allora via, si prende un autobus! Che sarà mai?! Ore 23 circa. Hell's Kitchen. Non si chiama così per niente. Ci sarà un motivo. Alla fermata non c'è nessuno. Poi si avvicina un tizio. Potrebbe essere un modello di Armani o un serial killer. Niente panico. La nostra app dice che il bus sta arrivando. Hell's Kitchen. In fondo è solo un nome come un altro. Quarto Oggiaro, per dire. L'autobus arriva, si ferma, le porte si spalancano. Alla guida una signora di colore di mezza età. Sorride e urla: "Ecco il vostro taxi, guys!". Al momento mi sfugge il senso. Capisco un attimo dopo: il bus è vuoto. Solo per noi. Ci accomodiamo in fondo, come in gita scolastica e la paura scompare. Hell's Kitchen è una figata!

E per finire. Due menzioni d'onore. Che non posso sottacere. Frank Gehry a New York (IAC Building sulla 18ma West e Beekman Tower a Lower Manhattan) e il Memoriale a Ground Zero. Imperdibili. Emozionanti. Belli da fare male.


...e se ancora non sono riuscita a farvi amare New York...non dubitate che ci riproverò molto presto.

domenica 11 settembre 2016

9/11: UOMINI CHE ODIANO IL GENERE UMANO

Ieri sera ho fatto una strana associazione di idee.
In seconda serata davano UOMINI CHE ODIANO LE DONNE, nella versione di David Fincher. Il film è tratto dall'omonimo libro di Stieg Larsson. Un libro crudele e feroce, come solo la letteratura scandinava sa essere. Il titolo è azzeccatissimo, anche se solo alla fine se ne percepisce il senso intimo e la portanza complessiva. Un odio profondo, ancestrale, famigliare, spiazzante.

Sempre ieri sera il telegiornale ricordava l'imminenza del quindicesimo anniversario dell'11 settembre. Di nuovo le immagini delle torri colpite, la polvere, le urla. Di nuovo le persone che in pochi minuti devono decidere come sia meglio morire, se bruciati vivi o spiaccicati a terra dopo un volo dalla finestra. Di nuovo i crolli. I vigili del fuoco. Le bandiere tra le macerie. Ground Zero.
Si dice che ogni americano ricordi perfettamente dove si trovava e cosa faceva quella mattina. Una sorta di memoria collettiva vista e raccontata da milioni di angolazioni.
Ho anche letto un lungo e bellissimo articolo ieri sera. Che consiglio a chi abbia la curiosità di conoscere le memorie degli "uomini e donne del presidente". Ovvero di quella manciata di persone che erano insieme al presidente americano George W. Bush quella mattina, che l'hanno dovuto informare di ciò che accadeva e che sono saliti con lui sull'Air Force One, senza ben sapere quando e dove sarebbero atterrati.

Ma tornando alla mia associazione di idee, se dovessi dare un titolo al triste anniversario odierno, ecco, sarebbe UOMINI CHE ODIANO IL GENERE UMANO. Perché la genesi di certe azioni non attecchisce ovunque, ma solo su una base ben nutrita di odio e disprezzo. E anche l'odio non è un sentimento facile, non è un'erba che cresce spontanea. Va' nutrito e accudito. Alimentato a cattiveria. Mi ricordo un film di tanti anni fa ("Sleepers" di Barry Levinson) dove un saggio diceva: "Dovete coltivarla la cattiveria... e costruirci una vita sopra". Perché è l'unico modo per mantenere vivo l'odio. Perché, se ci pensate, anche la cosa più tremenda che ci hanno fatto nella vita, con il tempo sbiadisce un po', perde di vividezza. La rabbia si stempera. L'odio, se mai c'è stato, si spegne. Ma se invece viene innaffiato e nutrito, se i suoi colori vengono mantenuti vivi e squillanti, allora l'odio cresce rigoglioso. Affonda le sue radici nelle profondità dell'anima ed estirparlo diventa impossibile.

giovedì 1 settembre 2016

#FERTILITYDAY revolution

Mettiamo subito in chiaro una cosa: non avrei mai voluto scrivere questo post. Mai. Perché in un mondo senza più privacy sono convinta che alcune cose vadano protette, difese e tenute per sé.
Ma non ce la faccio. Non ce la faccio proprio. Da un paio di giorni mi sento così profondamente offesa e insultata, che fatico a trovare le parole giuste. Fatico a raccontare l'enormità della mia indignazione. Fatico a credere ai miei occhi.
...Fertility Day? Davvero? No, davvero???
Non voglio nemmeno iniziare ad elencare quanti e quali motivi rendano stupido l'intero progetto. Molte persone lo stanno già facendo, alcune piuttosto efficacemente. Credo che in qualche modo ciascuna di queste persone stia un po' raccontando la sua storia. Indignandosi, arrabbiandosi, usando il sarcasmo. Sono storie che disegnano le mille e più sfaccettature del genere umano. Tutti abbiamo una storia. Anch'io ho una storia.

C'era una volta una bambina, figlia unica, che cresceva circondata da piccoli cugini. Li adorava tutti quanti. Li ha tenuti tutti in braccio, uno dopo l'altro, coccolati e sbaciucchiati. E fu proprio allora che quella ragazzina, crescendo, sviluppò la sua adorazione per i bambini e decise che da grande ne avrebbe avuti tre. Due femmine e un maschio.
Poi quella ragazzina si dedicò alla scuola, allo studio... e per un po' abbandonò l'idea di avere dei figli. Un bel giorno arrivò un bel principe e con lui tornò anche il desiderio di maternità. Ma il principe disse no. E lei lo rispettò. I figli sono una scelta, non un diritto. Non si può obbligare chi si ama a volerli per forza.
Dopo quel principe arrivarono molti altri rospi e rospetti. Uno in particolare, che adorava i bambini. Ma fu quella ragazza ormai cresciuta a dire no. Dopo averci tanto pensato... perché sarebbe stato facile, ma quello non era un principe. Non era quello giusto.
E così gli anni passarono... ma nessuno di quei tre bambini arrivò... e quella donna ormai adulta cercò faticosamente di farsene una ragione. E ancora non ci è riuscita.
...
Ora, fuori di metafora, io non mi sento un "bene comune" scaduto, né una risorsa mancata per l'umanità. E non ho perduto né la speranza né il desiderio di essere mamma. Ma conosco i miei limiti e so fare di conto, contrariamente a quanto pensa il nostro Governo.
Gli anni saranno 43 tra poco e ho pensato anche a tutte le possibili alternative. Comprese inseminazioni di vario genere e natura. Compresi viaggi all'estero per abbreviare le attese. Ma mi sono fatta pure milioni di domande, scrupoli, questioni... Sarà giusto, non sarà giusto, sarà facile, sarà difficile, sarà corretto, sarà egoistico, sarò capace, sarò all'altezza...
E mi fa una gran rabbia che la mia storia, i miei pensieri, i miei sentimenti siano stati schiaffeggiati dalla foto di una Signorina Nessuno che sventola una clessidra, quasi fosse l'ultimo modello di smartphone. Mi indigna che le mie scelte sofferte vengano ridicolizzate da quattro piedi sbucanti da un lenzuolo e decorati da un emoticon, che equiparano il concepimento a una chat su whatsapp.
Ma la cosa che mi lascia maggiormente perplessa è questa. In tutto il processo creativo (chiamiamolo così) che ha condotto alla campagna del Fertility Day, che immagino sia durato qualche giorno o addirittura qualche settimana... ecco, durante tutto il percorso, nei summit, nelle riunioni operative, a nessuno dei presenti è balenata nella mente l'idea di alzare la manina e dire: Ragazzi, fermiamoci perché stiamo facendo una cazzata mondiale???
A nessuno?! No?!?
E la cosa ancor peggiore è che questa geniale campagna ha avuto il suo avvallo finale da una donna. Che ha detto: Sì, mi piace, facciamolo. Una donna. Che non ha capito. Che non ha pensato. Che ha insultato in un colpo solo milioni di altre donne. Che, invece della solidarietà femminile, ha pensato bene di piantare una gioiosa coltellata nelle ovaie di tutte noi. Fertili e non fertili. Mamme e non mamme.
Grazie ministro. Grazie davvero.

lunedì 15 agosto 2016

TI METTO IN COPIA

Vorrei tanto conoscerlo, sul serio, il tizio che ha inventato la COPIA CONOSCENZA. Alias CC.
Davvero. Vorrei tanto sapere cosa aveva in mente quando ha partorito una delle peggiori idee della storia.
Intendiamoci. A livello puramente teorico la CC è una bellissima invenzione. Il problema è che la gente non la capisce. Non ne afferra la filosofia.
E il mondo si divide come sempre in due categorie (sarebbero tre, ma la terza è talmente esigua rispetto alle altre due, che non risulta significativa):
• Quelli che ignorano l'esistenza della CC. La ignorano proprio come concetto. E conseguentemente ignorano anche l'esistenza del tasto RISPONDI A TUTTI. E dunque non mettono MAI nessuno in CC. Nemmeno a pagarli.
• Quelli che abusano impropriamente della CC. Nemmeno fosse una prescrizione medica. E dunque mettono TUTTI in CC. Sempre. Soprattutto quando non serve. Soprattutto quando è inopportuno.

La terza categoria include coloro che comprendono la CC, la utilizzano con criterio e sanno quando evitarla. Ma come dicevo, questa categoria è del tutto irrilevante.
Il grosso del pianeta si distribuisce nelle prime due categorie. Più o meno equamente. E non si sa chi sia peggio. Infatti, i primi ti costringono a re-inoltrare copie di copie di mail a coloro che sono stati esclusi dal giro della CC. Ma in questo modo ci sono quelli che hanno seguito tutto lo scambio di comunicazioni, mentre altri si sono persi dei pezzi... e devono ricostruire la conversazione in un puzzle a ritroso, dove si ha la continua sensazione di esserti perso dei pezzi. E probabilmente è così.
Al contrario i secondi ti costringono a leggere informazioni di cui faresti volentieri a meno. O peggio, condividere dettagli che preferiresti tenere per te. Perché si comincia sempre parlando di lavoro, ma poi, a suon di botta e risposta, si arriva a disquisire dell'ultimo acquisto fatto su Yoox... e a quel punto ti chiedi come mai tutti quanti ne debbano essere aggiornati. Amici, colleghi, consulenti e su su fino all'amministratore delegato.

Ecco perché uso con parsimonia la CC. Perché non la capisce quasi nessuno. Eppure non è difficile. Se metto dieci persone in copia a una mail, ci sarà un maledetto motivo, no?! Quindi fai il favore di rispondere a tutti e non solo a me! Per favore! Grazie! E se invece ti sto raccontando quanto ho speso per un paio di Manolo, fammi la cortesia di non mettere tutti in copia. Interrompi la catena! Per favore! Grazie!
Ma che ve lo dico a fare? Tutto fiato sprecato...